CEMIR, lavorando per l’empowerment delle donne immigrate e rifugiate in Brasile

Conversazione con Soledad Requena, consulente di genere presso il CEMIR, Centro per le donne immigrate e rifugiate, a San Paolo, Brasile.Consulente internazionale su Genere e Migrazione, Soledad ci racconta un po’ della sua storia come donna migrante e del suo attivismo in materia di genere e immigrazione. Parla del lavoro del CEMIR e spiega la complicata situazione delle donne in Brasile in questo difficile momento di pandemia.

di Juliana da Penha/ traduzione Daniela Ghio

“Ama qhilla, ama llulla, ama suwa”

(non essere pigro, non essere un bugiardo, non essere un ladro)

Il proverbio di cui sopra, in lingua Quechua, fa parte della saggezza popolare dei popoli andini (Bolivia, Perù ed Ecuador), trasmessa fin dall’infanzia. Ce lo ha spiegato Soledad, una donna peruviana e migrante, che attualmente vive in Brasile.

L’esperienza di Soledad con la migrazione è iniziata quando aveva 5 anni, quando tutta la sua famiglia è emigrata dalla campagna peruviana alla capitale Lima negli anni Sessanta. “Ho la scena molto chiara, abbiamo viaggiato in treno, mia madre ha raccontato storie di come sarebbe stata la nostra vita in questo nuovo mondo. Abbiamo portato un baule colorato, dove mia madre teneva le foto, i nostri documenti. È stato un momento davvero notevole per tutta la famiglia”.

Soledad non ha mai dimenticato la frase che sua madre disse quando arrivarono a Lima: “Lima non ci batterà, noi batteremo Lima”. Ha paragonato la sua esperienza con le persone della regione settentrionale del Brasile emigrate a San Paolo negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta.

La madre di Soledad era semi analfabeta, con 11 figli, ma diceva sempre che le donne dovrebbero studiare. “Anche se è cresciuta nella campagna, secondo una logica diversa, dove gli uomini erano orientati allo studio e le donne alle attività domestiche, incoraggiava le figlie a studiare. Ha cambiato totalmente le sue prospettive. Ha investito molto nel nostro studio”, racconta Soledad.

Seguendo i consigli di sua madre e il suo istinto, Soledad divenne presto una leader. Era una militante del movimento studentesco delle scuole superiori e una delle fondatrici del coordinamento nazionale degli studenti delle scuole superiori in Perù “Credo di avere già nel mio sangue la leadership e questo femminismo molto interiorizzato” dice Soledad.

“Credo di avere già nel mio sangue la leadership e questo femminismo molto interiorizzato”

In molte esperienze di donne, la gravidanza e il matrimonio cambiano la loro direzione e i loro progetti personali. E con Soledad è stato lo stesso. Dopo essere rimasta incinta e sposata, è andata a vivere in Brasile, con la famiglia del marito. E lì ha conosciuto un po’ della realtà che molte donne immigrate affrontano in un nuovo Paese “Ero diversa e non parlavo bene il portoghese. Ho imparato a parlare il portoghese dai braccianti che lavoravano nella fattoria di mio suocero. Erano i miei insegnanti”.

Decisa a continuare i suoi studi, Soledad ha studiato Assistenza Sociale, all’epoca era l’unica straniera all’università. “E lì ho sentito la discriminazione perché ai miei tempi non c’erano politiche di integrazione, nelle università non c’erano neri, non c’erano persone di altre regioni del Brasile, e non c’erano persone di altre classi sociali”. La strategia che molte donne immigrate usano per affrontare la discriminazione e altre forme di oppressione è quella di ottenere il massimo rendimento del loro potenziale. E con questo in mente, da sola, con due figli, lavorando e studiando, conclude i suoi studi. “Anche con tutte le discriminazioni, non ho mai dimenticato la frase di mia madre”.

Dopo questo passo significativo, decide di tornare in Perù, affinché anche i suoi figli possano conoscere la sua cultura e famiglia. Lì lavora in organizzazioni come l’UNICEF, lavora in progetti dell’Unione Europea e vi è rimasta fino a quando ha sentito la “sindrome del nido vuoto” da quando i suoi due figli sono tornati a vivere in Brasile, a San Paolo.

E quando torna in Brasile, inizia la sua traiettoria con il tema della migrazione. Ricorda che tutto è iniziato quando è stata invitata alla “Marcia degli immigrati”, un evento annuale che si svolge a Sao Paolo, ogni prima domenica di dicembre e che riunisce tutte le nazionalità, provenienti da tutto il Brasile. “Quando sono andata alla marcia degli immigrati, ho incontrato di nuovo la mia tribù”, spiega.

Soledad ha fatto un percorso lavorando in organizzazioni e progetti legati all’immigrazione in Brasile. Oggi lavora al CEMIR, che durante la pandemia sta sviluppando azioni di emergenza, come la distribuzione di alimentari essenziali per le donne in situazioni di vulnerabilità sociale. Un’altra azione, riconoscendo l’aumento dei casi di violenza domestica durante la quarantena, è stata la creazione della campagna “Quarantena sì, violenza contro le donne no”, unendo le voci delle donne brasiliane e degli immigrati per denunciare la violenza contro le donne durante la pandemia.

“Anche con tutte le discriminazioni, non ho mai dimenticato la frase di mia madre”.

Intervista con Soledad Requena

Ci racconti come ha iniziato a occuparsi del problema dell’immigrazione a San Paolo, specificamente con le donne migranti.

Soledad: A San Paolo c’era già una necessità di lavoro con gli immigrati, ma mancava una prospettiva di genere. La presenza delle donne è diventata un fenomeno, la “femminilizzazione” dell’immigrazione, dove oggi possiamo dire che la migrazione ha un volto femminile.

Cinque anni fa, nessuna ONG si occupava di genere nell’immigrazione. Allora ho iniziato a lavorare in una ONG a San Paolo, per dare avvio al lavoro con le donne immigrate. Così iniziò il mio contributo incorporando la prospettiva di genere e utilizzando la metodologia di Paulo Freire, per identificare i leader nei quartieri, rafforzando le basi in ogni comunità.

In Brasile, soprattutto a San Paolo, che è la città più grande, la maggior parte degli immigrati sono boliviani.  Abbiamo iniziato questo lavoro con le donne boliviane che sono inserite nella catena produttiva dei cucito, vittime di un lavoro schiavo, molte di loro sono vittime della tratta di esseri umani e, oltre a tutto, subiscono violenze domestiche.

Tra le altre cose lavorare con la prospettiva di genere con le donne immigrate in un’istituzione non secolare rende difficile sviluppare questioni essenziali come il diritto alla salute sessuale e riproduttiva e all’emancipazione economica. Per continuare a lavorare con le donne immigrate con lo stesso sogno di emancipazione femminile sono stata invitata dal Centro per le donne immigrate e rifugiate, CEMIR.

Soledad e un gruppo di donne migranti

Così iniziò il mio contributo incorporando la prospettiva di genere e utilizzando la metodologia di Paulo Freire, per identificare i leader nei quartieri, rafforzando le basi in ogni comunità.

Può spiegare come CEMIR inizia il lavoro, adottando la prospettiva di genere, con la migrazione?

Soledad: Abbiamo iniziato il nostro lavoro come collettivo, come gruppo di donne, tre anni fa. Poi abbiamo creato l’ONG , il Centro per le donne immigrate e rifugiate.

Come ho spiegato prima, abbiamo osservato che negli ultimi 5 anni c’è stato un cambiamento nel profilo dell’immigrazione. L’immigrazione femminile è aumentata molto in Brasile. Ora stiamo parlando di immigrazione con il volto di una donna. Provengono da diversi paesi, ma soprattutto dalla Bolivia e nell’ultimo anno molte donne provengono dal Venezuela.

Molte di queste donne arrivano da sole con i loro figli. All’inizio delle attività di CEMIR, avevamo chiaro che avremmo lavorato sulla questione dell’immigrazione, ma subito dopo abbiamo fatto questo taglio di genere, sulla base delle statistiche del crescente flusso migratorio delle donne in Brasile.

L’immigrazione femminile è aumentata molto in Brasile. Ora stiamo parlando di immigrazione con il volto di una donna.

Quali progetti, attività e sostegno offre CEMIR alle donne immigrate e rifugiate?

Soledad: Abbiamo “Rodas Warmi”  (cerchi delle donne).  In lingua Quechua, dai popoli nativi di Perù, Bolivia ed Ecuador, Warmi significa donna. Noi usiamo questi cerchi per riunire le donne nei quartieri. Nell’analisi che abbiamo fatto abbiamo delineato la strategia di andare nelle zone periferiche, dove si trovano gli immigrati e dove si nota la presenza delle donne. Abbiamo una rete in 13 quartieri, e in ogni comunità abbiamo una leader che vive nel territorio. La nostra strategia utilizza anche il concetto di territorio. Le donne leader vivono lì e hanno un rapporto con le donne che vivono nei dintorni. Identifichiamo le donne leader immigrate, le chiamiamo, e facciamo la proposta di svolgere questo lavoro.

Il lavoro delle donne immigrate, soprattutto latine, ha una storia di azione collettiva. Quindi per noi non è difficile lavorare in questo modo. Essendo peruviana, conosco questa realtà, ho lavorato a lungo con organizzazioni popolari, quindi è qualcosa di naturale. La cultura collettiva fa sì che i leader esistano sempre. Così identifichiamo questi leader, e li invitiamo a fare questo lavoro in ogni quartiere, riunendo le donne, perché si conoscano e dialoghino. Così loro hanno chiamato questi gruppi di donne a lavorare all’interno dei cerchi Warmi per parlare di empowerment, dei diritti che hanno come donne, come esseri umani. E anche di quali diritti hanno in Brasile, secondo la legge brasiliana sugli immigrati.

Le altre nostre azioni sono laboratori, che chiamiamo “Tamos juntos” (Stiamo insieme) utilizzando l’Arpillaria, come forma di conoscenza dei diritti, di come identificare la violenza di genere, la discriminazione, la xenofobia. L’Arpillaria è stata ampiamente utilizzata dalle donne indigene in Cile ai tempi della dittatura di Pinochet, stimolata da Violeta Parra, artista e artigiana. Hanno iniziato a sviluppare questa tecnica con grande creatività, in un momento di grande difficoltà in Cile. 

Un altro progetto che abbiamo sviluppato è quello del calcio. Praticamente tutta la comunità di immigrati latini pratica il calcio, ed è una logica entusiasmante perché anche le donne boliviane lo praticano molto. Il calcio femminile nel contesto dell’immigrazione boliviana, soprattutto a San Paolo, è enorme.

Il lavoro delle donne immigrate, soprattutto latine, ha una storia di azione collettiva. Quindi per noi non è difficile lavorare in questo modo. Essendo peruviana, conosco questa realtà, ho lavorato a lungo con organizzazioni popolari, quindi è qualcosa di naturale. La cultura collettiva fa sì che i leader esistano sempre.

Puoi parlare un po’ di più dei cerchi Warmi? Quali sono le altre tematiche in discussione?

Soledad: La maggior parte delle donne con cui svolgiamo i nostri progetti lavorano nei laboratori di cucito, dove le condizioni sono analoghe alla schiavitù. Oltre ad essere vittime di queste condizioni precarie nei laboratori di cucito, spesso sono anche vittime di violenza, che può essere da parte di un capo, un parente, perché spesso i parenti sono i proprietari dei laboratori. E spesso sono i loro mariti. Anche nei cerchi Warmi lavoriamo su questi temi. Parliamo anche di lavoro minorile. Nella cultura di gran parte della popolazione di origine indigena, il lavoro ha un concetto diverso dalla legislazione. Per loro, più giovani si inizia a lavorare, meglio è. Noi lavoriamo per decostruire questa idea, per guidarli, per informarli che queste condizioni possono interferire con lo studio, a scuola. 

Per non confrontarci con la cultura andina, abbiamo un dialogo orizzontale. Usiamo la metodologia di Paulo Freire, che io uso da più di 20 anni perché credo che applicare questa metodologia al lavoro con le donne immigrate porti successo, vediamo quanto stanno trasformando la loro vita.

Soledad e un gruppo di donne migranti

Così loro hanno chiamato questi gruppi di donne a lavorare all’interno dei cerchi Warmi per parlare di empowerment, dei diritti che hanno come donne, come esseri umani. E anche di quali diritti hanno in Brasile, secondo la legge brasiliana sugli immigrati.

Com’è la situazione delle donne migranti in questo momento critico che il Brasile sta vivendo con la pandemia?

Soledad: Il nostro gruppo è formato da donne in una situazione di vulnerabilità, e con la pandemia si trovano in una posizione di estrema vulnerabilità. Abbiamo le emergenze alimentari, le emergenze sanitarie, la questione del lavoro. Con la pandemia, i luoghi di lavoro sono chiusi. Dato che le donne sono senza lavoro, molti stanno facendo le mascherine. Avevamo già i leader, i gruppi delle donne e i gruppi di WhatsApp, quindi con la pandemia non è stato difficile per noi comunicare e continuare il lavoro. Non ci siamo fermati fino ad ora. 

Per prima cosa, abbiamo fatto un intero orientamento su ciò che è Covid-19, prevenzione, igiene, abbiamo spiegato l’importanza di mantenere le distanze e di stare a casa. Abbiamo fatto una campagna sull’importanza di igienizzare le case, i laboratori di cucito dove lavorano perché molti di loro hanno il posto di lavoro a casa. Siamo andati controcorrente rispetto al governo di Bolsonaro. Li abbiamo informati degli aiuti di emergenza offerti dal governo perché anche loro ne hanno il diritto. Abbiamo iniziato un’opera che abbiamo chiamato imprenditoria solidale, e con il sostegno di alcune istituzioni abbiamo ottenuto un capitale iniziale in modo che potessero iniziare a fare le mascherine. Attraverso i nostri social media, abbiamo ottenuto un aiuto per commercializzare le mascherine che stanno producendo.

La campagna del CEMIR contro la violenza domestica durante la pandemia

Il nostro gruppo è formato da donne in una situazione di vulnerabilità, e con la pandemia si trovano in una posizione di estrema vulnerabilità. Abbiamo le emergenze alimentari, le emergenze sanitarie, la questione del lavoro. Con la pandemia, i luoghi di lavoro sono chiusi. Dato che le donne sono senza lavoro, molti stanno facendo le mascherine.

Una delle questioni che tante donne stanno affrontando nella quarantena è la violenza domestica. Come è questa situazione in Brasile e quale azione CEMIR sta sviluppando per rispondere a queste problematiche?

Soledad: La violenza di genere è questione molto preoccupante in questo periodo di isolamento. Abbiamo già avviato una campagna di orientamento per denunciare “Quarantena sì, violenza contro le donne no”.

Stiamo usando l’Arpillaria perché possano esprimere ciò che sentono durante la pandemia, in questo contesto di isolamento.

Ogni ultima domenica del mese abbiamo un incontro per valutare tutto il nostro lavoro. Ogni giorno comunichiamo tra di noi, ma usiamo questo incontro per parlare tra di noi come gruppo. Una di loro, per esempio, ha rivelato quanto sia scossa dalla mancanza di lavoro. Ha paura perché non sa cosa fare senza lavoro. Abbiamo creato questo progetto per esprimere come si sentono le donne immigrate in questo contesto di pandemia.

Sto ricevendo rapporti molto drammatici dalle donne che fanno parte dei cerchi Warmi. Stiamo guidando i leader dei quartieri, e i leader guidano le donne, tutto per telefono.

Immaginate dalla campagna del CEMIR contro la violenza domestica durante la pandemia

La violenza di genere è questione molto preoccupante in questo periodo di isolamento. Abbiamo già avviato una campagna di orientamento per denunciare “Quarantena sì, violenza contro le donne no”.

Leave a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Scroll to Top